Quando a Gangi "s'addumàvanu 'i fanàli"

di Salvatore Farinella©, pubblicato in L'Eco delle Madonie, 25/30 maggio 2001

Torre dei Ventimiglia (foto S. Farinella©)
Torre dei Ventimiglia (foto S. Farinella©)

Solamente gli anziani ultrasettantenni hanno memoria di quando a Gangi "s'addumàvano 'i fanàli", in un periodo in cui ancora l'energia elettrica neanche si sapeva cosa fosse. Fino ai primi decenni del Novecento infatti, giacché la pubblica illuminazione dovuta alla nuova energia avrebbe avuto inizio solamente a metà degli anni Trenta, il buio della notte rendeva le strade pericolose per la gran parte della popolazione ma sicure per chi voleva che l’oscurità divenisse sua complice.

Appena qualche ora di luce, dal momento che i fanali non rimanevano accesi per l'in- tera notte, e poi l’oscurità diventava alleata di manigoldi e latitanti e soprattutto motivo di terrore per chi aveva qualcosa da temere: "Al buio si cammina meglio", sembrava che dices- sero infatti i fuorilegge che in quel periodo infestavano la zona.

In quegli stessi anni il poeta dialettale locale, Francesco Paolo Polizzano, così descrive- va in versi le condizioni del suo paese rammaricandosi dell'oscurità:

“... Li siri chi cc’è luna / cu l’ariu annuvulatu / è Gangi cunnannatu / a fitta oscurità ... / pirchì è proibitissimu / addumari fanali, / nni pò veniri mali / mentri chi luna cc’è ... / ... Tenebri ... in tuttu tenebri ... / di tenebri ‘mpastatu / poviru sfurtunatu / paisi miu si tu ! ...” (‘Na sira a Gangi).

Alcune delibere del Consiglio Comunale di allora ci consentono di sapere come fosse illuminato il paese durante le prime ore notturne di quegli anni, quale fosse la consistenza e la distribuzione dei corpi illuminanti e quale il servizio per cui si aggiudicava l'appalto della pubblica illuminazione. Una memoria che ai giovani d'oggi dell'era informatica può sembrare obsoleta, ma che consente forse di apprezzare meglio le cose di cui oggi (fortunatamente) disponiamo e che i nostri nonni neanche si sarebbero sognati.

Siamo nell'anno 1913 e gli echi della Grande Guerra sono ancora lontani, come lontano dai fasti e dallo splendore di un tempo era questo grosso paese rimasto immutato nella sua essenza medievale, contadina e feudale. Nella seduta del 18 novembre il Consiglio Comunale si appresta ad approvare il capitolato che dovrà regolamentare il servizio di pubblica illuminazione: l'argomento all'ordine del giorno viene introdotto dal Sindaco (nonché Presidente del Consiglio) barone Li Destri. 

A. Jerone, Scorcio di Gangi
A. Jerone, Scorcio di Gangi

E' questo il periodo in cui Gangi comincia a essere tristemente nota per una serie di attività legate allo sfruttamento intensivo dei feudi e dei latifondi (ma anche delle pubbliche forniture), attraverso un sistema di prepotenze e di prevaricazioni che avvolgerà nella sua spirale numerose persone. E sono anche gli anni in cui, da un punto di vista sociale e dei servizi, il borgo madonita arranca attraversando uno dei momenti più tristi di miseria: l'acqua, portata dalle lontane montagne di Fegotti solamente nel 1911, viene distribuita attraverso una precaria rete di tubazioni in terracotta, mentre i locali scolastici sono ricavati in due o tre case private site in via Vitale e in via San Vito, affittate al Comune, giacché l'edificio scolastico sorgerà solamente negli anni Trenza sulle "ceneri" del quattrocentesco complesso benedettino della Badia.

Nel buio della miseria sociale e dell'oppressione psicologica, tra "lu scuru ca si fèdda" nella maggior parte delle strette stradine, il paese viene illuminato da appena 140 fanali distribuiti in maniera tale da garantire la luce solamente nelle strade principali: vanèdde e strade secondarie rimangono avvolte nelle tenebre per l'intera durata del buio, e chi è intenzionato a percorrerle deve affidarsi alle sere di quiete e di plenilunio o, in alternativa, alla modesta lanterna. Ma quei pochi fanali significavano comunnque una fuga dalle tenebre della notte e del terrore, almeno per quelle poche ore in cui gli apparecchi rimanevano in funzione.

Dei fanali esistenti a Gangi in questo periodo, 124 erano provvisti di lumi a petrolio mentre 16 avevano lumi ad "acetilene" (1): tutti però erano dotati di beccucci a due braccia della forza di 30 candele.

I 16 fanali ad acetilene rendevano una luce più brillante rispetto agli altri e servivano ad illuminare la strada che dalla chiesa di San Cataldo, per il corso Giuseppe Fedele Vitale, la piazza del Popolo e la via Umberto I, giungeva alla chiesa di San Paolo. Strada principale del paese, lungo il suo corso avevano sede la Casa Comunale e la chiesa madre ma anche i palazzi dei ricchi baroni e dei proprietari terrieri: non a caso i fanali ad acetilene avevano inizio dalla chiesa di San Cataldo, nei cui pressi si trovava il palazzo dei baroni Sgadari, e terminavano alla chiesa di San Paolo vicino alla quale era il palazzo della ricca famiglia Mòcciaro. Al centro del percorso, accanto alla piazza cittadina e di fronte la Casa Comunale, era infine il palazzo del barone Li Destri, già appartenuto nei secoli precedenti ai baroni Bongiorno.

Sul far della sera, all’Ave Maria, il "lampionaro" partiva con la sua scala portandosi appresso tutto l’occorrente che l’arte richiedeva. Già, perché la gestione della pubblica illuminazione prevedeva che l’appaltatore fornisse a sua cura e spese tutto il materiale di con- sumo: il petrolio e il "carburo", che dovevano essere di qualità ottima e senza "residenza" e “scevra di corpi estranei e miscele mercantibili”, i beccucci, i tubi, i "lucignoli" per l’accensione di qualità "prussiana", con esclusione di quelli di tessuto o di filato duro che attenuavano il consumo a scapito della luce (per la quale la fiamma non doveva mai trovarsi inferiore a 5 centimetri), e ancora i recipienti e gli accenditori.

Mestiere duro, quello del lampionaro: dover correre a destra e a manca per dare poche ore di luce a poche strade, doversi portare appresso scala e attrezzature caricate sulle spalle, combattere contro le folate di vento che, a volte quasi per dispetto, rendevano quel mestiere ancora più duro e nevrotico. Ma era un mestiere come un altro, e bisognava adeguarsi.

Il capitolato per il servizio della pubblica illuminazione prevedeva poi l’obbligo di mantenere i fanali in buono stato di servizio: essi andavano colorati almeno una volta l’anno con colori ad olio di lino e andavano puliti ogni giorno; e l’appaltatore doveva tenere in magazzino, come scorta, 300 litri di petrolio, 170 tubi assortiti, 7 chilogrammi di lucignoli e 200 lastre di vetro.

Il tutto per una retribuzione "a strasatto" (ossia a forfait) di 2 centesimi per ogni ora e per ogni lume, equivalente a 11 lire al giorno nel periodo estivo e a quasi 17 lire in quello invernale.

Durante il corso dell'anno infatti il servizio della pubblica illuminazione notturna veniva prestato secondo i due periodi, invernale ed estivo: dal mese di ottobre a tutto il mese di marzo i fanali dovevano rimanere accesi per sei ore ogni sera, mentre dal mese di aprile a tutto il successivo settembre venivano garantite solamente quattro ore di illuminazione.

In pratica, dopo la mezzanotte il buio avvolgeva ogni cosa. Ma nelle sere quando la luna si trovava tra il primo quarto e "quintadecima", quando cioè il corpo celeste dava il suo massimo chiarore, i fanali dovevano rimanere spenti: circostanza questa che fece cantare al buon Polizzano la triste condizione del suo amato paese:

“ ...Li chiamanu fanali / ma sunnu lampi oscuri / chi duranu du’ uri / e doppu nenti cchiù / ...chiddi chi su vaneddi / chiddi chi su vadduna / si nun c’è lustru di luna / passari ‘un si cci po’ ... (‘Na sira a Gangi).

Nel 1920 i fanali furono portati a 170, ancora troppo pochi per garantire una sufficiente illuminazione delle strade. Poi, nell’ottobre del 1932, arrivò l’energia elettrica, i pali affissi ai muri delle case, il reticolo di fili lungo i quali la “corrente” venne distribuita ai nuovi lampioni dotati di lampadine: e fra i và e vieni, gli sbalzi di tensione e il tremolìo dei nuovi corpi illuminanti, i vecchi fanali andarono in pensione, e con loro il paziente e buon “lampionaro”.

 

Note

 

L’acetilene è un gas incolore, molto luminoso, ottenuto per idrolisi dal carburo di calcio o per ossidazione parziale del metano. E’ im- piegato come combustibile nei cannelli per la saldatura e il taglio dei metalli.