L’assedio del 1299, la presunta distruzione e la presunta riedificazione di Gangi: dalla storia all’invenzione

di Salvatore Farinella©, testi inediti tratti da GANGI. LA STORIA. Dal Medioevo al Novecento. Vol. I. Dalla fondazione normanna alla fine del Medioevo (XII-XV secolo). Il borgo e il suo territorio  (in corso di pubblicazione), ottobre 2012

Veduta di Gangi (foto S. Farinella©)
Veduta di Gangi (foto S. Farinella©)

La questione

 

A partire dalla seconda metà del Cinquecento gli storiografi siciliani tramandarono un avvenimento che, oltre a segnare la storia di Gangi in maniera significativa, fece ritenere che la vita dell’odierno centro abitato iniziasse proprio da questo episodio. Raccontò infatti Tommaso Fazello che essendosi l’abitato di Gangi ribellato a Federico III d’Aragona «per bestialità e temerità di Francesco Ventimiglio, che n’era Signore, fu rovinato insin da’ fondamenti» (1): precisarono altri autori che il Sovrano «volle nel 1299 rovinata la città per essersi contro di lui ribellata … indi i cittadini venendo nel colle vicino fabbricaronsi un nuovo paese» (2). Da allora eruditi e cartografi distinsero l’etimo della nostra cittadina in Gangi vetus oppidum - vecchio castello di Gangi - e in Gangi novum oppidum - nuovo castello di Gangi -, cristallizzando di fatto nel riconoscimento di un avvenimento accaduto alla fine del Duecento l’estinzione del vecchio centro e la nascita dell’odierno.

Secondo l’opinione dei due autori locali, Nasello e Alaimo, la vicenda dell’assedio di Gangi volse dunque al peggio con la capitolazione e la distruzione della vecchia Gangi. Così venne ricostruita la vicenda da parte del Nasello: «gli engini [sic] dalle mura della piazzaforte con frecce e pietre decimano le truppe attaccanti. Frattanto vengono avvicinate, trainate da buoi, le rozze, ma enormi torri d’assalto; il fossato, esistente all’esterno delle mura, viene superato mediante ponti improvvisati. Quindi i soldati del Re danno la scalata, giungono a livello delle mura, mentre gli assediati si difendono in una disperata lotta corpo a corpo … Federico, il quale ammirandone il valore, concede loro salva la vita, ordina che la città, dopo lo sgombero degli abitanti, sia rasa al suolo», mentre «stanchi e macilenti per le lunghe privazioni, con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore … [gli abitanti] abbandonano la secolare città e mentre una gran parte va ad accamparsi nelle vicine campagne, altri cercano rifugio nei paesi prossimi» (3).

Anche l’Alaimo non fu avaro di colpi di scena, ammettendo che «finalmente sia per la fame degli assediati sia per il valore dei soldati di Federico, Gangi Vecchio [sic] venne espugnato non senza spargimento di sangue d’ambo le parti … il paese fu distrutto, la chiesa parrocchiale fu rispettata; e fu la sola fra i fabbricati che rimanesse in piedi. La popolazione cercò asilo nei paesi vicini» (4).

Su questo poco persuasivo fondamento prese piede la convinzione dei nostri due studiosi locali, Nasello e Alaimo, che la Gangi distrutta da Federico III fosse da identificare nell’abitato esistente in contrada Gangi Vecchio e che dopo che le case erano state «distrutte per volontà selvaggia del vincitore» l’odierno borgo fosse sorto poco distante sul Monte Marone «verso la fine del 1299 o nei primi del 1300» (5): benché si ammise che «un paese non s’improvvisa in un giorno», tuttavia la data della presunta ricostruzione venne fatta oscillare fra il 1303 (6) e il 1324, comunque lungo il corso del Trecento (7).

Una “storia” quella della distruzione e della successiva ricostruzione di Gangi sul monte Marone, raccontata dalla storiografia tradizionale, che però non regge di fronte a documenti ed evidenze di vario genere.

 

Federico III re di Sicilia, duomo di Messina (foto dal web)
Federico III re di Sicilia, duomo di Messina (foto dal web)

I fatti storici

 

Per chiarire la controversia è necessario inquadrare all’interno del contesto storico siciliano gli avvenimenti che in quell’anno 1299 videro protagonista la terra di Gangi.

Gli anni che seguirono la rivolta siciliana del Vespro - che nel 1282 aveva portato alla cacciata degli Angioini dalla Sicilia da parte di Pietro d’Aragona - furono anni di grande confusione politica e di disordine. A un mese esatto dalla scomparsa del padre, re Giacomo d’Aragona sbarcava a Trapani e il 2 febbraio 1286 riceveva a Palermo la corona di Re di Sicilia: uno dei primi atti del nuovo Sovrano fu quello di promulgare una nuova costituzione e un patto d’alleanza col fratello Alfonso, che nel frattempo era stato incoronato Re d’Aragona.

Il riaccendersi del conflitto fra Angioini e Aragonesi portò dunque gli eserciti e le flotte a scontrarsi in Calabria e nei mari del Mediterraneo: fu in un naufragio nei pressi di Palinuro che, l’anno seguente, perdette la vita il giovane Alduino Ventimiglia, figlio primogenito del conte Enrico che dopo il Vespro era tornato in Sicilia.

La morte di Alfonso d’Aragona (18 marzo 1291) e l’assunzione della corona spagnola indussero re Giacomo ad abbandonare la Sicilia, lasciandovi quale suo vicario e luogotenente il fratello minore Federico: tuttavia col trattato di Anagni del 20 giugno 1295 le manovre del nuovo pontefice Bonifacio VIII indussero Giacomo a rinunciare al trono di Sicilia in favore degli Angiò, con la promessa dell’investitura della Corsica e della Sardegna. Il “tradimento” di Giacomo d’Aragona portò i siciliani a proclamare Re di Sicilia il ventiquattrenne Federico il quale, incoronato a Palermo il 25 marzo 1296 (giorno di Pasqua), assunse il nome di Federico III - in continuità con la dinastia sveva e con Federico II, suo avo materno - e il titolo di Re di Trinacria, Duca di Puglia e Principe di Capua.

Le trame di alcuni nobili - fra i quali Ruggero Lauria - costrinsero però il giovane Sovrano a proseguire nel conflitto, aggravato nel marzo 1297 dall’alleanza del fratello Giacomo con Carlo II d’Angiò: un’alleanza sancita dal matrimonio fra lo stesso Giacomo d’Aragona e Bianca d’Angiò e dal fidanzamento della di lui sorella Jolanda con Roberto d’Angiò.

Insieme al nipote Giovanni e a Giovanni da Procida, il nobile Ruggero Lauria lasciò la Sicilia mentre Giacomo d’Aragona e Carlo d’Angiò tentavano di riconquistare l’isola lanciando nuove offensive. Per riprendere il Regno era indispensabile per gli Angioini spingere alcune città alla rivolta, cominciando dalla parte orientale della Sicilia: oltre ai castelli di Castiglione, Novara, Tripi, Mascali, Ficarra, Aci e Francavilla - gravitanti nell’orbita di influenza di Ruggero Lauria -, nel settembre 1298 vennero coinvolti nella ribellione anche Patti, Milazzo, Monforte, San Piero, Buscemi, Palazzolo, Sortino, Ferla, Buccheri, Naso e Capo d’Orlando. Anche Catania e la contea di Modica aderirono alla rivolta, mentre verso occidente le punte estreme della ribellione furono Pietraperzia e Gangi, con l’intento di accerchiare e conquistare Enna che costituiva il centro del sistema difensivo di re Federico (8).

Una delle prime preoccupazioni del Sovrano fu quella di interrompere la manovra di accerchiamento degli Angioini, riconquistando Gangi e Pietraperzia. I fatti si svolsero fra l’inverno del 1298 e la primavera del 1299: tuttavia non conosciamo i motivi che indussero i notabili di Gangi - unico centro delle Madonie e della contea ventimigliana di Geraci - a parteggiare per gli insorti e per la causa angioina contro Federico III e contro Enrico Ventimiglia suo fedele alleato e signore della terra (9). Il borgo di Gangi era infatti saldamente in mano al conte Enrico, che era rientrato da poco nei propri possedimenti dopo un esilio e la confisca dei beni da parte degli Angioini negli anni ’60 del Duecento: alla morte prematura del figlio Alduino, egli tuttavia aveva cominciato a farsi affiancare dal giovane nipote Francesco - figlio dello stesso Alduino e della moglie Giacoma - il quale nell’aprile dell’anno 1300 figurava già milite e camerario fedele a re Federico (10).

La vicenda costrinse il conte Enrico Ventimiglia e il Gran Giustiziere del Regno Matteo da Termini, e poi lo stesso Sovrano, a cingere d’assedio la terra di Gangi. Tuttavia i fatti storici raccontano una storia diversa e sembra che il borgo non sia stato affatto distrutto …

 

... continua

Note

 

1 - T. Fazello, Le due deche dell’historia di Sicilia, tradotte dal latino in lingua toscana dal P. M. Remigio fiorentino, Venezia 1573, libro decimo, p. 301. Si veda anche T. Fazello, Storia di Sicilia, Palermo 1990, vol. 2, p. 446.

2 - V. Amico, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto e annotato da G. Di Marzo, Palermo 1855, vol. 1, p. 382; Id., Lexicon topographicum siculum, Catania MDCCLX, p. 203. Si veda anche F. M. Emanuele e Gaetani, Marchese di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo 1754, parte II, libro I, p. 92.

3 - S. Nasello, Engio e Gangi. Nella storia, nella leggenda, nell'arte, Palermo 1949, p. 31-32.

4 - F. Alaimo, La Chiesa di Gangi nell'era cristiana e pagana, Palermo 1959, p. 36. L’autore cita a supporto le cronache di Niccolò Speciale, Historia Sicula, lib. IV, capo IX e XI, del Muratore, Rerum Scriptorum Italicarum, vol. X, e di Rocco Pirri, Sicilia Sacra con le aggiunte del Mongitore e dell’Amico: tutti testi che, come si è dimostrato in più occasioni, risentono di notevoli descrizione immaginarie non confermate da alcuna documentazione storica.

5 - S. Nasello, Engio e Gangi, cit., p. 32-33.

6 - F. Alaimo, Attraverso la Sicilia montuosa. Gangi, in “L’Ora” del 2 luglio 1924.

7 - F. Alaimo, La Chiesa di Gangi, cit., p. 36-37.

8 - Tutta la questione è stata ampiamente illustrata in F. Giunta, A. Giuffrida (a cura), Acta Siculo-Aragonensia. II. Corrispondenza tra Federico III di Sicilia e Giacomo II d’Aragona, Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1972, p. 20-23.

9 - Per giustificare la defezione dei notabili gangitani alcune interpretazioni hanno fatto immaginare una non meglio definita infedeltà dei Ventimiglia nei confronti di Federico III o la trasformazione in rivolta filoangioina di una presunta vessazione fiscale operata da Enrico Ventimiglia nei confronti degli abitanti del luogo. Come è stato meglio rilevato dal Giunta e dal Giuffrida, le posizioni geografiche di Gangi e di Pietraperzia fanno invece pensare alla necessità di formare due teste di ponte per concentrare un’azione militare a tenaglia su Enna: Gangi sarà stata coinvolta grazie a qualche amicizia filoangioina dei notabili che, in vista di chissà quale illusoria promessa, avrebbe aperto le porte ai rivoltosi.

10 - A. Marrone, Repertorio della feudalità siciliana (1282-1390), Quaderni di Mediterranea ricerche storiche, n. 1/2006, p. 440.