I mulini ad acqua in "flomaria Gangij"

di Salvatore Farinella©, pubblicato in L'Eco delle Madonie del 8/14 dicembre 2000

Mulino della fiumara (foto S. Farinella©)
Mulino della fiumara (foto S. Farinella©)

Le recenti notizie riguardanti iniziative per il recupero di mulini ad acqua a Polizzi Generosa e a Castellana Sicula e le ultime segnalazioni sui mulini ad acqua di Scillato non possono che destare ammirazione, almeno per un duplice motivo: intanto per il pregevole patrimonio etnoantropologico in sé, testimonianza di una cultura contadina che ha fatto la storia di quelle comunità, e poi per l’interesse mostrato verso le sorti di tale patrimonio fino a qualche anno fa sconosciuto o solamente tenuto in sordina per il solo fatto di essere considerato “patrimonio minore”.

La Sicilia, si sa, ha fondato fin dall’antichità la sua stessa esistenza sulla produzione del grano e sulla sua trasformazione. Varie "vie del grano", testimonianze di un territorio messo intensivamente a coltura, solcavano l’entroterra siciliano fino ad arrivare ai caricatori sulla costa: da qui poi il mondo conosciuto veniva rifornito del prezioso frutto della terra. La patria di Demetra-Cerere era dunque quel "granaio del Mediterraneo", luogo per eccellenza della produzione dell’elemento primario per il sostentamento dell’uomo, che approvvigionava città e villaggi fuori dall’Isola. Non tutto il grano tuttavia veniva esportato, giacché anche la Sicilia viveva dei prodotti ricavati dalla molitura del frumento: la farina, dalla quale produrre pane e focacce, e le semole da utilizzare per polente e minestre. Il frumento, che era la specie più pregiata e fra quelle che richiedevano una maggiore cura nella coltivazione, non era però il più consumato: per lungo tempo, infatti, furono diffusi l’orzo e altri cereali come la segale e il miglio, oltre i legumi (fave, piselli, lenticchie, ceci), spesso macinati con gli stessi attrezzi usati per i cereali.

 

Macina biconica in pietra lavica, IV sec. a.C., Museo Archeologico di Gangi (foto S. Farinella©)
Macina biconica in pietra lavica, IV sec. a.C., Museo Archeologico di Gangi (foto S. Farinella©)

L’esigenza di poter disporre di attrezzi adatti alla molitura fu avvertita fin dai primordi della civiltà: fin dai tempi più antichi la molitura dei cereali ricoprì un posto importante nelle occupazioni domestiche quotidiane, soprattutto delle donne. Per millenni i cereali furono macinati su pietre a superficie concava, con l’aiuto di macinelli, con un faticoso movimento esercitato stando prevalentemente in ginocchio. Ma fu quando ci si rese conto che, per ottenere il risultato, si poteva sfruttare la forza motrice dell’acqua che si assistette alla nascita di veri e propri impianti, a volte complessi, per la produzione della farina. Così vennero costruiti i primi mulini in prossimità dei fiumi e, con il passare del tempo, essi divennero sempre più numerosi fino a formare, nell’ambito dello stesso territorio, a volte ristretto, delle vere e proprie aree pseudo artigianali.

Anche nel territorio di Gangi, come del resto nella maggior parte dei territori dei centri in cui scorre un fiume, furono realizzati dei mulini ad acqua. La flomaria di Gangi, che scorre poche centinaia di metri a sud dall’attuale borgo, costituiva uno dei "capi e scaturigini" (come li chiamò Idrisi) dell’antico fiume Imera meridionale, oggi Salso: nell’antichità esso divideva la parte della Sicilia occupata dall’etnia Sicana, nella parte sud-occidentale, da quella sotto il dominio dell’etnia Sicula posta ad oriente.

Il corso d’acqua, un tempo forse navigabile, disegnava varie anse nella vallata che scendeva verso meridione: esso solcava il territorio gangitano, da nord a sud, e rappresentava la lunga spina dorsale attorno alla quale si era attestata la presenza dell’uomo fin da epoche lontane. E’ proprio lungo questa linea di fiume che vennero costruiti i mulini di Gangi, ben 14, dei quali oggi rimane più di qualche traccia.

Particolare della sana di un mulino della fiumara di Gangi (foto S. Farinella©)
Particolare della sana di un mulino della fiumara di Gangi (foto S. Farinella©)

Le prime notizie storiche riguardo ai mulini della fiumara di Gangi le ritroviamo in un documento del 1307: una quietanza rilasciata al conte di Geraci, Francesco Ventimiglia a cui Gangi apparteneva, dal suo procuratore Novello de Montonino. Nel documento, pubblicato da E. Mazzarese Fardella nel Tabulario Belmonte, si parla infatti dei mulini "de novo facti in flomaria Gangii", ossia della ricostruzione di alcune di queste strutture atte alla molitura del grano e probabilmente già preesistenti al documento.

Quanti fossero tali mulini all’epoca del conte Francesco non lo sappiamo, ma documenti inediti di epoche successive (dal XV al XVIII secolo) che ho potuto ritrovare presso gli archivi e soprattutto i resti delle strutture mostrano chiaramente la presenza di almeno 14 costruzioni attestate sugli argini del fiume, in un ambito territoriale piuttosto limitato: a partire infatti dal Piano, immediatamente alle falde del monte dove sorge Gangi, i mulini erano distribuiti fino al "ponte di Capuano", proprio sotto l’antica masseria fortificata dominata dalla suggestiva torre merlata.

I nomi dei mulini derivavano soprattutto dalle famiglie di mugnai che li possedevano o che li tenevano in gabella, ma anche dai torrenti che affluivano nel corso principale del fiume di Gangi o ancora dalla posizione topografica da essi occupata nel contesto degli altri mulini: alcune di queste strutture appartenevano ad enti religiosi, come l’abbazia benedettina di Santa Maria di Gangi Vecchio e la Badìa di Gangi, mentre altri appartenevano ad organismi più complessi qual’era ad esempio la Commenda di San Giovanni Gerosolimitano che a Gangi possedeva il feudo della Magione.

Correndo lungo il fiume di Gangi, a partire dal Piano, e scendendo verso Capuano è possibile individuare i resti di quattro gruppi di mulini ad acqua attestati più o meno nelle vicinanze del corso d’acqua: il "gruppo del Piano", con il mulino del Piano e il mulino detto d’immenzo, era quello più vicino al paese. C’era poi il gruppo dei mulini della Furma, così chiamati dal luogo che trae il nome dalla prima ansa formata dal fiume: qui è possibile individuare tre di tali strutture fra le quali un mulino donato nel 1422 all’abbazia di Gangi Vecchio dal nobiluomo gangitano Antonio Lapichulilla.

Proseguendo lungo il percorso del fiume si incontra il gruppo dei mulini di S. Jacopo, così denominati dal nome che il fiume assume in quel luogo: si tratta di un gruppo di quattro mulini, alcuni dei quali appartenuti ancora all’abbazia di Gangi Vecchio e alla Badìa di Gangi. All’antico monastero benedettino appartenne il mulino chiamato della Cassira mentre alla Badìa appartennero i due mulini denominati San Jacopo di susu e San Jacopo di jusu: accanto a questi era il mulino delli Brandi, dal nome della famiglia di mugnai che, nel Cinquecento, gestiva la struttura.

Scendendo ancora il corso del fiume si incontrano altri due mulini, nei pressi della masseria fortificata di Capuano: il mulino Fisauli dal nome della famiglia proprietaria o delle Terrate dal nome del feudo in cui esso ricadeva, e il molinazzo. Non è escluso che vi fossero altri mulini di cui oggi non rimane traccia apparente sul territorio ma che i documenti d’archivio segnalano in vari modi: mulino di fontana fridda, mulino della carrubba, il molinello, mulino di Masi Tolomello, mulino di Jo di halajmo. Una ricerca durata diversi anni ha condotto chi scrive a rintracciare, oltre che i documenti inediti d’archivio, anche la maggior parte delle antiche strutture, ricostruendo il percorso dei mulini della fiumara di Gangi, i sistemi di alimentazione dell’acqua per il funzionamento delle mole, nonché le parti costitutive degli stessi mulini (1).

Ancora individuabile e in parte quasi perfettamente funzionante è il sistema di prese dell’acqua dal fiume e il sistema di canali di adduzione, le saje, che con un percorso a volte di centinaia di metri portava l’acqua al mulino: al termine del canale un primo invaso chiamato ingoggiatura consentiva di raccogliere l’acqua che attraverso un ulteriore canale veniva confluita nella botte, ossia un silo in pietra a forma cilindrica o parallelepipeda. Da qui l’acqua per caduta veniva direzionata verso la ruota, dotata di pale in legno e posizionata sotto il corpo del mulino, che imprimeva il movimento rotatorio della mola in pietra: quest’ultima macinava il grano e consentiva di produrre la farina.

Di particolare interesse era il cosiddetto salto dell’acqua, ossia la caduta dell’acqua dalla botte alla ruota: i proprietari dei feudi dov’erano posti i mulini traevano anche da questo un cospicuo guadagno, considerato che per il funzionamento del mulino era necessario avere il salto dell’acqua che facevano pagare a prezzi non modesti.

Oggi dei vecchi mulini ad acqua della fiumara di Gangi ne esiste solamente uno completo ma in condizioni fatiscenti e abbisognevole di urgenti lavori di recupero: degli altri, uno è stato recuperato e adibito ad abitazione di campagna, di altri due si conserva ancora integra solamente la botte, mentre degli altri è possibile rinvenire soltanto i ruderi.

E’ innegabile che i vecchi mulini ad acqua, o ciò che di essi rimane, racchiudano in sé un grande valore storico culturale e antropologico, testimonianze residue dei processi di trasformazione dei prodotti della terra: e altrettanto innegabile è il fatto che i mulini siano parte integrante di quel ciclo, noto come "ciclo del grano", tanto radicato nella cultura antropica gangitana da indurla ad elaborare una sagra dedicata al bene (un tempo) più prezioso della terra, ciclo magistralmente raffigurato dal maestro Giambecchina nelle sue opere destinate a divenire parte del patrimonio culturale di Gangi.

La fiumara di Gangi e i suoi mulini costituiscono dunque un potenziale turistico culturale rilevante che, se correttamente interpretato, potrebbe rappresentare un discreto percorso di fruizione alternativo, soprattutto se inserito in un sistema di valorizzazione complessivo dell’area. Lungo il fiume di Gangi e i suoi affluenti infatti, oltre ai predetti mulini, si trovano due masserie feudali fortificate (Capuano e Bordonaro Soprano), un castello rupestre di età medievale (Regiovanni), un sistema di tombe rupestri (Gulfi) e, poco più distante, una abbazia benedettina (Santa Maria di Gangi Vecchio) e alcune aree archeologiche di notevole interesse, datate fra il XIII secolo a.C. e il V secolo d.C. (Serra del Vento, Polizzello, Alburchia, Gangi Vecchio).

Un passato dunque da riscoprire e valorizzare, anche nelle meno apparenti testimonianze storico-culturali che a pieno diritto fanno parte della storia di un popolo.

 

Note

 

1 Il presente articolo costituisce anticipazione di un mio lavoro più ampio dal titolo I mulini ad acqua della flomarìa di Gangi in corso di lavorazione.