Gandolfo Felice Bongiorno (1722-1801). Profilo inedito di un erudito gangitano del '700 nel bicentenario della morte
di Salvatore Farinella©, pubblicato in Le Madonie, n. 11 2001
Nell’entroterra siciliano, dove l’aristocrazia terriera era occupata a trarre il maggior profitto dallo sfruttamento di feudi e di uomini, Gandolfo Felice Bongiorno rappresentò l’anima intellettuale delle Madonie del Settecento. Particolarmente colto, aveva avuto modo di leggere numerose opere grazie alla fornita libreria (biblioteca) del barone suo fratello: fra gli oltre 120 volumi presenti aveva sicuramente letto quelli del Mugnos, di Volterre, del Petrarca ma anche di Omero, Ovidio e Publio Virgilio Marone (7).
I frequenti scambi culturali lo portarono a far parte di altre Accademie letterarie: quella degli Arcadi, con il soprannome di Lucidio Eliconio, quella degli Ereini nella quale era chiamato Telapso Eliconio e quella degli Uniti di Cortona fra i quali era detto Erinceo Astreo.
Nell’ambito della sua patria Gandolfo Felice rivestì anche varie cariche sociali: fu Procuratore della fabbrica della chiesa madre e soprattutto, per diversi anni, Rettore del Monte di Pietà. Ma fu anche un uomo dedito agli affari, specialmente dal 1767 in poi quando, alla morte del fratello, si ritrovò tutore del nipote e amministratore dei beni della famiglia: grazie alla sua tenacia contro il Marchese di Geraci, per esempio, la famiglia Bongiorno ebbe prima in enfiteusi (dal 1770) e poi in proprietà (dal 1786) l’antica abbazia benedettina di Santa Maria di Gangi Vecchio e il feudo di Camporotondo (8).
Fu questa una delle operazioni finanziarie più importanti eseguite da Gandolfo Felice Bongiorno, che portarono la famiglia a impossessarsi di uno dei più prestigiosi e ambìti feudi del territorio di Gangi.
Nonostante il Bongiorno si distinguesse in quel clima di miseria e di arretratezza culturale in cui versava l’entroterra siciliano, seppure fosse abbastanza conosciuto nell’ambiente giacché frequentava i salotti buoni della capitale, tuttavia Gandolfo Felice non raggiunse quell’apprezzamento e quella notorietà alle quali tesero altri mecenati del tempo: forse perché la sua sensibilità verso l’arte e la cultura (almeno dopo la morte del fratello barone) non fu così profonda da fargli sacrificare gli interessi personali e di famiglia.
Prova ne è l’assoluta leggerezza con la quale Gandolfo Felice Bongiorno fece smantellare il pregevole chiostro loggiato cinquecentesco dell’antica abbazia di Santa
Maria di Gangi Vecchio, oramai divenuta casina di campagna della sua famiglia: l’eccessivo costo per un recupero della struttura (così come anche per la conservazione degli affreschi coevi
dell'abbazia) indusse infatti il nobiluomo a rinunciare a quelle glorie del passato, riducendo la questione a un puro ragiona-mento di tipo economico. [Per l'argomento si rimenda a S. Farinella,
L'abbazia di Santa Maria di Gangi Vecchio, versione digitale, Gangi 2013).
Il colto patrizio non “approfittò” neppure delle vestigia presenti nell’area della vecchia abbazia, nonostante la loro esistenza fosse stata messa in ampio risalto perfino da Vito Amico nel suo Lexicon circa trent’anni prima: il Bongiorno infatti, che conosceva bene l’opera del prelato catanese, non si curò (al pari, per esempio, del Principe di Biscari) di indagare più profondamente quel luogo e di riportare in luce reperti e, chissà, di fondare magari un museo alla stregua del nobile patrizio catanese Ignazio Paternò Castello.
E pensare che nelle vesti di “archeologo”, nel 1761, aveva avuto modo di cercare tesori di antichità presso Monte Alburchia, minuziosamente e appassionatamente descritti nell'agosto dello stesso anno in una lunga lettera inviata all'abate catanese Vito Amico che costituisce pregevole documento di storia patria. Alla accurata descrizione del Monte Alburchia e della vicina contrada Comune il Bongiorno fece seguire una colta dissertazione sui due pittori conterranei Gaspare Vazzano e Giuseppe Salerno, soprannominati entrambi lo Zoppo di Gangi, e una descrizione sulle cose più notabili della sua città di cui lo stesso prelato “non fu avvertito”; ciò dà al nostro mecenate il merito di essere stato il primo erudito e storico gangitano.
Gandolfo Felice Bongiorno morì quasi ottantenne il 13 febbraio 1801 ed è probabile che il suo corpo venne sepolto nella cripta di famiglia nella chiesa dei Cappuccini di Gangi (oggi non più esistente). Egli rappresentò qui a Gangi, e nelle Madonie, l’incarnazione di quella cultura settecentesca alla ricerca degli ideali di utilità e di bellezza, il nobiluomo intellettuale, illuminato e appassionato, ambizioso di distinguersi e desideroso di compiere imprese culturali degne di futura memoria. Ma a duecento anni dalla morte il suo ricordo appare affievolito, dimenticato dalla sua città che tuttavia in molte opere assiste ignara all'eredità culturale di questo suo encomiabile figlio.
Note
7 Fra i volumi della biblioteca Bongiorno (tratti dall'inventario testamentario del barone Francesco Benedetto agli atti del notaio Andrea Cammarata) segnaliamo le opere di Agostino Calmet, Sopra le apparizioni degli spiriti e sopra i Vampiri o i redivivi de'Ungheria e Moravia, del Salomon, Stato presente del mondo, di Francesco Savasta, Il caso Sciacca, e numerosi testi sulle vite dei Santi a testimoniare il vasto repertorio librario del barone Francesco Benedetto.
8 La vertenza con il Marchese di Geraci, don Luigi Ventimiglia, e l'acquisizione dell'antico cenobio benedettino di Gangi Vecchio da parte dei Bongiorno sono trattati in un lavoro dello scrivente sulla storia dell'antica abbazia in attesa di un interesse editoriale. [Il lavoro è stato pubblicato in versione digitale]