Contratti d'opera nelle Madonie del '700. Due esempi inediti a Gangi e a Petralia Soprana sotto la singolare "regia" di Gandolfo Felice Bongiorno

di Salvatore Farinella©, pubblicato in Le Madonie, n. 5 2002

Anche il Settecento fu per le Madonie un brulicare continuo di cantieri aperti dove schiere di artisti ed artigiani di ogni sorta, grazie ad una committenza ecclesiastica particolarmente attiva, riuscirono a produrre apprezzabili opere: e a volte quella stessa committenza faceva uso di supervisori e “registi” dell’opera, architetti di chiara fama o di più modesta notorietà i cui nomi giravano di luogo in luogo, di cantiere in cantiere.

Uno di essi fu Gandolfo Felice Bongiorno, poliedrico personaggio appartenente alla famiglia aristocratica gangitana dei Baroni di Cacchiamo, Rolìca e Capuano; colto e raffinato, letterato, erudito e uomo di cultura dal sapere enciclopedico, egli fu il motore di quel fermento intellettuale che a metà del XVIII secolo caratterizzò tutte le Madonie [1].

Non sappiamo se realmente lo fosse, ma sembra che Gandolfo Felice Bongiorno prediligesse svolgere l’attività di architetto. Benché in nessuno dei documenti finora esaminati gli venga conferito tale titolo, tuttavia numerosi suoi interventi come progettista e direttore dei lavori sono documentati in varie chiese a Gangi e nelle Madonie in tutta la seconda metà del XVIII secolo: il più noto e forse più importante fu indubbiamente quello svolto nella chiesa dello Spirito Santo in Gangi, seguito da altri interventi nella chiesa madre e in quella di San Cataldo (chiese tutte del suo paese natio), sebbene la sua attiva presenza sia testimoniata anche nelle chiese madri madonite di Geraci Siculo [2] e di Polizzi Generosa [3].

Due inediti contratti d’opera per lavori eseguiti a Gangi ed a Petralia Soprana, per un verso eterogenei trattandosi l’uno di un lavoro di argenteria e l’altro di stucchi, confermano il ruolo di protagonista svolto dal Bongiorno nell’ambito della produzione artistica maronita, ruolo di regista senza dubbio apprezzato da committenti ed esecutori.


Statua di Sant'Antonio da Padova, Filippo Quattrocchi (Bambino) e autore napoletano, 1765, chiesa madre (foto S. Farinella©)
Statua di Sant'Antonio da Padova, Filippo Quattrocchi (Bambino) e autore napoletano, 1765, chiesa madre (foto S. Farinella©)

Il primo dei due documenti riguarda l’argentatura della statua di Sant’Antonio da Padova posta nell’omonima cappella della chiesa madre di Gangi: datato 17 novembre 1764, il contratto venne stipulato fra i due argentieri palermitani Pietro Salemi e Antonio Barliri e il sacerdote don Cataldo Seminara, Procuratore della venerabile Cappella del gloriosissimo Sant’Antonio di Padova [4].

Dal tenore del contratto appare subito evidente che la statua del Santo, già esistente, non fosse di pregiata fattura [5]: sembra anzi che il simulacro avesse dei difetti che i due argentieri palermitani avrebbero dovuto correggere attraverso una patina d’argento finemente modellata. D’argento doveva essere rifatta tutta la tonaca del Santo che, ad opera compiuta, doveva mostrare morbidi panniggi così come anche le maniche del saio che dovevano essere modellate secondo l’arte.

I due argentieri erano obbligati a usare argento di bolla di Palermo e, fra le altre condizioni esplicitate nel contratto, erano tenuti ad eseguire un modello di creta dell’opera: il tutto per il prezzo pattuito di 30 onze, escluso l’argento che rimaneva a carico del Procuratore della cappella.

Un curioso particolare riconduce questo intervento (da considerarsi, se vogliamo, di natura secondaria trattandosi dell’accomodamento di una statua) a una sfera superiore: nella loro opera infatti gli argentieri erano obbligati a seguire «il disegno approvato dal Signor Don Gandolfo Bongiorno», rispettando il modello prestabilito [6].

Viene da chiedersi come mai un affermato intellettuale ed erudito, appassionato trasformatore di chiese qual era il Bongiorno, si interessasse anche di un apparentemente modesto lavoro di ridefinizione di una statua mal fatta, approvandone (o forse anche predisponendone) il disegno.

La risposta (che potrebbe essere ovvia considerando la complessa figura culturale di Gandolfo Felice Bongiorno) può forse risiedere nella circostanza che vede la famiglia aristocratica (e l’abate Cataldo Lucio, fratello di Gandolfo Felice) particolarmente devota al Santo da Padova [7]: prova ne è il cenotafio marmoreo situato proprio a lato dell’altare del Santo.

Sembra però più ragionevole attribuire l’intervento del Bongiorno sulla statua proprio al suo ruolo di supervisore a cui la committenza religiosa gangitana e madonita (ma anche quella laica) si affidava, tanto per interventi apparentemente semplici, quale poteva essere appunto la risoluzione di problemi estetici di una comune statua, quanto per lavori di gran lunga più complessi.

 

Note

 

[2] Cfr. G. TRAVAGLIATO, Gli archivi delle arti decorative delle chiese di Geraci, in AA.VV., Forme d’arte a Geraci Siculo, 1997, pag. 162.

 

[3] Cfr. V. ABBATE, Inventario polizzano. Arte e società inun centro demaniale del Cinquecento, Palermo 1992, pag. 95.

[4] Archivio di Stato di Termini Imerese (da ora AST), fondo notai defunti, notaio A. Cammarata, vol. 7058, f. 153 r/v.

[5] La statua oggetto del contratto non dovrebbe essere quella che oggi si ammira nella cappella omonima della chiesa madre di Gangi, statua attribuita alla sapiente e geniale mano dello scultore gangitano Filippo Quattrocchi.

[6] In effetti dalla lettura del documento sembrerebbe potersi evincere che il riferimento al disegno fosse da intendersi piuttosto al giglio del Santo che non all’intera statua.

 

[7] In nessun documento abbiamo finora trovato accenni a pagamenti in favore di Gandolfo Felice Bongiorno per i suoi interventi progettuali; la circostanza ci fa supporre che il nobiluomo agisse per devozione e spirito culturale piuttosto che per professione.