La civiltà contadina fra storia e tradizione: il ciclo del grano

di Salvatore Farinella©, testo inedito tratto da Gangi. Il tempo della spiga. Tradizioni e memorie della civiltà contadina e della vita quotidiana nel borgo madonita. Abitudini, saperi, costumi, tradizioni popolari e gastronomiche, eredità materiali e immateriali fra Ottocento e Novecento (in corso di lavorazione)

Gianbecchina, pisatìna (da Il ciclo del grano)
Gianbecchina, pisatìna (da Il ciclo del grano)

‘A pisatìna ‘nta l’àrija (luglio)

 

Tutto il mese di luglio era dedicato all’ultima fase del ciclo del grano sul terreno, ‘a pisatìna ossia la trebbiatura. Per prima cosa doveva predisporsi l’àrija (l’aia), il fulcro della pisàta, ed era necessario che il luogo dove doveva sorgere avesse delle caratteristiche particolari: di forma circolare con un diametro di 8-10 metri, essa doveva essere allestita in un luogo sufficientemente pianeggiante, di tirrènu carcatìzzu ossia compatto e con l’erba rasa, e con la giusta esposizione al vento. L’àrija veniva annittàta (pulita) cchi scùpi e si muràvanu ‘i χiaccàzzi (fessure) del terreno, poi vi si spargeva uno strato di paglia: in qualche fì’udu, a volte, l’àrija veniva pavimentata ccu chiacàtu (acciottolato) per averla sempre pronta.

Così preparata, l’àrija era pronta ad accogliere ‘i grègni che, liberate dalle lijàmi, venivano accatastate all’interno mentre altre grègni ancora legate venivano disposte sull’orlo esterno della circonferenza per evitare che si potesse disperdere parte del grano. Per la pisatìna si attendevano le ore più calde della giornata, perché le spighe dovevano essere bene asciutte: intorno alle 11,00-11,30 ‘u pisatùri o cacciànti entrava 'nta l’àrija e, raccolta qualche spiga, provava sul palmo della mano la secchezza della pianta e, se se i chicchi di grano venivano rilasciati senza difficoltà, dava l’avvio al lavoro.

Oltre ‘o pisatùri, alla pisatìna prendevano parte diverse persone munite degli attrezzi occorrenti ppi vutàri l’àrija (capovolgere le spighe) in maniera tale da pisàri anche le spighe poste di sotto: quindi si portavano ‘i grànfi (rastrelli) e ‘i tradènti (tridenti), ma anche ‘i pàli (le pale), ‘i crìva (setacci), ‘u mènzu tùmminu (mezzo tumulo), ‘i sàcchi di tìla e ‘i visàzzi che servivano per le successive operazioni da’ spagliàta e da’ siggénza. Non mancava chiaramente il vitto, dato che le operazioni di trebbiatura sarebbero durate diverse ore: perciò ne’ vìrtuli o na’ sacchìna veniva messo il pane e ‘a pitànza (la pietanza) costituita da tumàzzu, ricòtta, pumadòri, alìvi e qualche sàrda salàta, mentre l’acqua veniva portata cca quartàra e ccu bùmmulu e il vino ccu jàscu.

Gli animali per pisàri erano legati insieme ppu capìzzu (dalla cavezza) con una corda corta, in maniera tale che ‘u pisatùri potesse guidare entrambi ccu càpu di ‘na sùla rìtina (con una sola redine) che serviva anche per incitare le bestie. Dopo essersi segnato col segno della croce e dopo aver esclamato “Sìja lodàtu e ringrazijàtu lu Santìssimu Sacramìntu”, ruotando su se stesso al centro dell’aia e incitando con alte grida, ‘u pisatùri faceva girare ‘i vìstij in circolo sui covoni ammassati, consentendo con il passaggio degli zoccoli di pisàri (pestare) le spighe che rilasciavano i chicchi di grano: ai margini dell’aia, dopo aver risposto “Sìja lodàtu ògni momìntu lu Santìssimu Sacramìntu”, gli altri uomini detti turnànti turnijàvanu l’àrija, cioè cca tradènti e ‘a grànfa arrunchiàvanu (ammassavano) in continuazione le spighe dei bordi spingendole sotto gli zoccoli degli animali.

Di tanto in tanto le bestie venivano fatte riposare facendole uscire dall’aia e dando loro orzo e avena ‘nta sacchìna, pausa che consentiva agli altri di vutàri l’àrija, ossia di rigirare le spighe di sotto: quindi si riprendeva a pisàri e ‘u cacciànti facìva vutàri spàdda ‘e vìstij, invertiva cioè il senso di rotazione e la posizione degli animali. Ultimata la prima pisàta - un’aia poteva contenere infatti tre-quattro màzzi di grègni, ossia sessanta-ottanta covoni, per cui a seconda del quantitativo di frumento occorreva pisàri più volte - e fatte nuovamente uscire dall’aia ‘i vìstij si provvedeva a dare un’altra passata alle spighe mediante due vacche aggiogate che tiravano ‘a pètra di l’àrija, una grossa pietra che consentiva di frantumare ulteriormente le spighe non del tutto stritolate.

‘A pisatìna durava dalle due alle quattro ore nelle ore più calde della giornata: sebbene fosse necessario un meritato riposo, durante il quale le bestie avrebbero potuto mangiare ‘a pruvènna e gli uomini avrebbero potuto prendere ‘un muzzicùni tirando fuori ‘a pitànza dùnni ‘a camèlla (la pietanza dal portavivande) e sorseggiare un muccùni di vìnu, tuttavia bisognava stare all’erta e fare presto per non farsi cogliere di sorpresa da San Màrcu, ossia dal vento che avrebbe favorito la fase successiva, ‘a spagliàta.

 

Gianbecchina, spagliàta (da Il ciclo del grano)
Gianbecchina, spagliàta (da Il ciclo del grano)

‘A spagliàta, ‘a palijàta e ‘a cirnùta

 

Il ciclo del grano prevedeva tre momenti successivi alla pisàta e dipendenti (almeno i primi due) dall’azione del vento: se il vento ‘un χiuχiàva (non soffiava) allora erano guai perché si poteva rimanere inoperosi anche per qualche giorno ccu pisàtu ‘a spagliàri (col frumento da pulire).

Il primo momento era ‘a spagliàta, ossia la separazione del frumento dalla paglia: con in testa un copricapo (un cappello di paglia o un fazzoletto annodato alle punte) e la camicia fuori dai pantaloni l’ùmini (gli uomini) si disponevano in fila uno accanto all’altro nell’aia e, armati di tradènti (forcone), lanciavano in aria e controvento ‘u pisàtu (il grano pestato). Prima della ricaduta a terra, l’azione del vento separava ‘u furmìntu (che cadeva all’interno di l’àrija) da’ pàglia che, più leggera del grano, veniva trasportata fuori dall’aia dove formava un mucchio a se stante: si continuava ‘a spagliàri fino a quando tutto ‘u furmìntu era stato annittàtu (pulito).

Il grano rimasto nell’aia non era però perfettamente pulito perché nella ricaduta a terra si era portato appresso della pagliuzza corta mista a polvere, chiamata χiùsca: bisognava allora separare ‘u furmìntu da’ χiùsca e per fare ciò il grano si’ palijàva (si spalava) con le pale di legno, lanciando ancora in aria il frumento controvento. Anche in questa fase, prima della ricaduta a terra, il vento separava il grano dalla χiùsca che, essendo più leggera, si andava accumulando di lato in un mucchietto, mentre ‘u furmintu costituiva un munzìddu (un mucchio) al centro dell’aia.

Le spighe rimaste intatte o non completamente sgranate venivano raccolte invece in un sacco di tela olòna e venivano ripistàti (ribattute) con un mazzùlu di lìgnu (mazzuolo di legno) e il grano veniva raccolto e aggiunto ‘o munzìddu. Tutte queste fasi erano accompagnate da canti e preghiere .

L’ultimo momento che dava il prodotto finito, dopo ‘a palijàta, era ‘a cirnùta (setacciata), una ulteriore pulizia che attraverso ‘u crìvu di l’àrija (setaccio dell’aia) o crìvu passatùri e ‘u crivìddu consentiva di eliminare i rimanenti corpi estranei: l’operazione era eseguita da un uomo chiamato appunto cirnitùri (cernitore). ‘U crìvu, del diametro considerevole di circa 80 centimetri, era costituito da un fondo di cuoio traforato con i fori riproducenti varie dimensioni dei chicchi di grano e formanti disegni geometrici: esso veniva tenuto sospeso tramite una corda al dente di un forcone piantato a terra con le punte verso l’alto, oppure a un treppiede formato da bastoni di fèrra (ferula).

Alla fine delle operazioni di pulitura ‘u furmintu era pronto e, mentre ‘a paglia veniva portata via ‘nta paglialòra (la pagliera) cchi ritùna - grandi reti in corda di canapa intrecciata a grosse maglie aperto nella parte superiore e chiuso in quella inferiore - o cca visàzza da’ pàglia - grande bisaccia in tela di olòna - per essere immagazzinata per costituire foraggio per gli animali, ‘u furmìntu si metteva di lato per riprendere nuovamente ‘a pisatìna di altre grègni, oppure si aspettava ppi spàrtiri l’àrija (dividere l’aia) col barone. Molto spesso, ultimandosi i lavori al tramonto, l’ùmini solevano coricarsi nell’aia ppi guardàri (sorvegliare) il frumento, con tutto quello che comportava in termini di convivenza notturna con gli animali della campagna, scursùna (serpenti), sùrgi (topi), sèrpi (lucertole).

 

 

‘A siggènza e ‘a spartènza di l’àrija

 

Ultimata la pulizia, ‘u furmintu veniva ammunziddàtu (ammonticchiato) al centro dell’aia per essere misurato e, nel caso della mitaterìja, essere diviso col padrone: era ‘a siggènza (riscossione) che avveniva cca spartènza di l’àrija (la divisione dell’aia, ossia del frumento).

Ultimate le operazioni ‘u mitatìri si recava dunque ‘o bàgliu du' barùni per riferire ‘o suprastanti che era ùra di spàrtiri l’àrija (l’ora di dividere il frumento): non sempre il soprastante garantiva la sua presenza in giornata, e a volte ‘a spartènza poteva essere rimandata anche di qualche giorno. Così ‘u mitatìri faceva ritorno e provvedeva a ‘mpisciàri l’àrija, ossia a formare delle canalette col frumento in maniera da fare defluire l’acqua in caso di pioggia: il rischio era infatti che un improvviso acquazzone estivo pregiudicasse il raccolto.

Giunto nell’aia nel giorno stabilito il soprastante provvedeva dunque ‘a spàrtiri l’àrija con l’ausilio di un impiegato e ccu mènzu tùmminu, il contenitore circolare della capacità di poco più di otto chili e mezzo: in genere ‘a siggènza, la spettanza al barone, era di 4 tùmmina di furmìntu ppi ògni sàrma di tirrènu (4 tumuli di frumento per ogni salma di terra seminata).

L’impiegato riempiva di grano ‘u mènzu tùmminu sotto lo sguardo vigile du suprastànti il quale, ‘a ccapùta (contenitore) riempita, passava sopra ‘a ràsa, un bastoncino che permetteva livellare il contenitore per ottenere una misura rasa ed evitare che al mitatìri potesse toccare ‘na jùnta (un pungo) di frumento in più. L’operazione richiedeva diverse ore soprattutto quando dovevano misurarsi diverse salme di frumento: per 7 salme (1.960 chilogrammi) di frumento, per esempio, occorrevano 224 mènzi tùmmina, dato che ogni sàrma (280 chilogrammi) era composta da 16 tùmmina e 1 tùmminu (17,5 chilogrammi), a sua volta, da 2 mènzi tùmmina.

Terminata ‘a spartènza il frumento si poteva finalmente nzaccàri ne’ sàcchi di tìla (insaccare nei sacchi di tela) contenenti 4 tùmmina di frumento, apparànnu ‘u sàccu (tenendo aperta l’apertura del sacco), o ne’ visàzzi (nelle bisacce) per essere trasportato di vurdunàra ‘nto magazzìnu du barùni, mentre ‘u mitatìri lo portava a casa a dorso di mulo e lo riponeva di solito nella camera da letto accatastandolo negli stessi sacchi.

Era la fine di un anno di duro lavoro e quel poco o molto frumento raccolto doveva bastare per tutto l’anno a venire per sfamare la famiglia ma anche per pagare i debiti contratti per esigenze della casa e dei familiari: ben presto, dùppu menz’agùstu (metà agosto), si sarebbe tornati nei campi (magari in uno nuovo per la turnazione delle colture) a dare inizio a un’altra annata agraria e a un nuovo ciclo del grano, mentre ‘u furmìntu dell’anno appena trascorso sarebbe divenuto pane quotidiano.

 

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